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225 – p. Sorge s.j. Il Gesuita che leggeva l’uomo

“Il gesuita che leggeva l’uomo con gli occhi di Dio” Vaticano news
“Gesuita per vocazione” Avvenire
Lo ricordiamo in mezzo a noi nel 2014 in occasione del 60° del Centro Schuster “IL VOLTO CULTURALE, SOCIALE E SPIRITUALE DELLO SPORT” BARTOLOMEO SORGE Quanto avrebbe goduto il padre Morell, se avesse potuto ascoltare il discorso di papa Benedetto, il 17 dicembre 2012, ai dirigenti del CONI (Comitato Olimpico Nazionale Italiano) e agli atleti reduci dalle Olimpiadi di Londra (2012). Infatti, in quel discorso del Papa c’è una frase che riassume perfettamente, e in certo senso canonizza, l’impegno al quale padre Morell dedicò tutta la vita. «La Chiesa – disse Benedetto XVI – si interessa di sport perché le sta a cuore l’uomo, tutto l’uomo, e riconosce che l’attività sportiva incide sull’educazione, sulla formazione della persona [aspetto culturale], sulle relazioni [aspetto sociale], sulla spiritualità [aspetto spirituale]. Lo testimonia la presenza di spazi ludici e sportivi negli oratori parrocchiali e nei centri giovanili: lo dimostrano le associazioni sportive di ispirazione cristiana, che sono palestre di umanità, luoghi d’incontro in cui coltivare anche quel forte desiderio di vita e d’infinito che c’è negli adolescenti e nei giovani». Queste parole avrebbe potuto dirle lo stesso padre Morell, per esprimere gli elementi fondamentali del suo carisma. Pertanto, il modo migliore di celebrare il 60° di fondazione del Centro Schuster penso sia quello di approfondire i tre aspetti caratteristici della missione sportiva di padre Morell con i giovani, sottolineati dalle parole del Papa: rivalutare cioè l’aspetto culturale, sociale e spirituale dello sport. Perciò faremo tre passi: 1) anzitutto vedremo come il padre Morell mosse dall’intuizione che la crisi dello sport rispecchiava la crisi profonda dei giovani e del nostro tempo; 2) in secondo luogo, vedremo che il padre Morell era persuaso che una rivalutazione culturale e sociale dello sport, non solo avrebbe restituito all’educazione sportiva il suo autentico significato, ma avrebbe contribuito efficacemente anche al superamento della crisi della nostra società; 3) infine, la profonda spiritualità personale di cui era dotato portò il padre Morell a insistere con forza sulla dimensione religiosa della formazione sportiva e dello stesso Centro Schuster.
  1. La crisi dello sport, specchio della crisi della nostra società
La crisi fondamentale del nostro tempo è chiaramente di natura culturale e morale. Non è un caso che la nostra società, a cominciare dagli anni ’70, sia comunemente definita come una «società senza padre». Infatti, il clima antiautoritario degli anni ’60 – quando ebbe inizio la grave crisi che tuttora ci affligge – non solo ha messo in discussione la concezione gerarchica e autoritaria di società, ma ha portato anche al rifiuto delle relazioni interpersonali, riducendo il concetto di persona da «essere-in-relazione» a «individuo», favorendo la diffusione dell’individualismo, che oggi è divenuto una sorta di «pensiero unico» dominante ed è all’origine di tante difficoltà per i giovani. La crisi delle relazioni interpersonali, che avrebbe corroso anche quelle familiari, in particolare tra padre e figlio, ha radici lontane. Le prime tracce di rifiuto si possono cogliere nell’illuminismo, quando la ragione umana si autodefinì «dea» e prese il posto di Dio. Certo, nessuno nega i progressi compiuti dalla modernità in tutti i campi. Ciò non toglie, però, che la cultura moderna abbia commesso un errore di fondo: l’uomo – si disse – è padrone della sua vita e del mondo; è lui che fa la storia e la dirige. Viene da qui l’estromissione di Dio dall’orizzonte umano: che bisogno c’è di una «paternità» trascendente, a cui fare riferimento e da cui dipendere? L’individuo, con la sua ragione, è «padre» a se stesso. E così paradossalmente l’uomo, volendo essere libero e padrone di sé, si è ritrovato orfano! Commenta papa Francesco nella lettera apostolica Evangelii gaudium: «Alcuni si credono liberi quando camminano in disparte dal Signore, senza accorgersi che rimangono esistenzialmente orfani, senza un riparo, senza una dimora dove fare sempre ritorno. Cessano di essere pellegrini e si trasformano in erranti, che ruotano sempre intorno a se stessi senza arrivare da nessuna parte» (n. 170). Ora, come dimostra la storia, il tentativo dell’individualismo moderno di costruire una «società senza padre», prescindendo da Dio e dai rapporti interpersonali, è risultato fallimentare. Ciò spiega perché la nostra generazione, e in particolare, le nostre famiglie siano deluse e sfiduciate. Commenta Benedetto XVI: oggi sono molti i «fattori che possono impedire un sereno e costruttivo rapporto tra padri e figli. La comunicazione si fa a volte difficile, la fiducia viene meno e il rapporto con la figura paterna può diventare problematico; e problematico diventa così anche immaginare Dio come un padre, non avendo modelli adeguati di riferimento. Per chi ha fatto esperienza di un padre troppo autoritativo e inflessibile, o indifferente e poco affettuoso, o addirittura assente, non è facile pensare con serenità a Dio come Padre e abbandonarsi a lui con fiducia»1 Soprattutto, però, avendo perso il senso della paternità, la nostra società ha perduto anche il senso della fraternità. Una società senza padre diviene ineluttabilmente una società senza fratelli. Se non siamo figli di un unico Padre, non siamo neppure fratelli tra di noi. Perché stupirsi allora che anche l’immagine della società umana ne esca stravolta? Essa non è più vista come un’unica famiglia in cui tutti siamo fratelli al di là delle differenze di razza, di cultura e di costume, ma è ritenuta piuttosto come un gregge di individui, gli uni accanto agli altri, estranei fra di loro, ciascuno intento a ricercare il proprio interesse, in una convivenza priva di ogni sentimento di fraternità e di solidarietà, dominata dalla «cultura dello scarto», che papa Francesco giustamente condanna, perché emargina ed elimina i più deboli e i poveri. Paternità e fraternità sono due facce della medesima medaglia: se cade una, cade anche l’altra. A questo punto, è facile scorgere quanto la crisi dello sport rispecchi da vicino la crisi della nostra società e in particolare dei giovani. Padre Morell l’aveva capito e denunciava nella crisi dello sport il prevalere di una concezione esclusivamente strumentale, tipica della cultura efficientistica dominante. E’ vero – diceva il padre – che lo sport ha valore anche strumentale, ma è un errore ridurre lo sport solo a strumento, senza riconoscerne il valore specifico trascendente che esso ha in sé. Così facendo si finisce col considerare lo sport prevalentemente come uno spettacolo, come un mezzo di evasione, di distensione e di divertimento. Lo sport è anche questo, ma non basta. Non basta neppure – come alcuni giustamente fanno – scorgere nello sport un mezzo per educare alla socialità e alla legalità, al confronto anziché alla contrapposizione, un’occasione per imparare a stringersi la mano vinti e vincitori, al di là delle differenze e delle frontiere o per rafforzare il senso della Patria con sventolio di bandiere, tra cori, inni e canti… Lo sport è anche questo, ma non basta. Infatti, anche questi aspetti rimangono sempre all’interno di una concezione meramente strumentale dello sport, che ne ignora la dignità trascendente. E’ un fraintendimento, né più né meno, come quello che si verifica nel peggiore dei casi, quando lo sport è visto come un prodotto commerciale per fare profitto, con le deprecabili conseguenze che ne derivano: dal doping alle partite truccate, alla violenza negli stadi, agli atti vandalici, alla mercificazione degli atleti e delle loro prestazioni. Per questa stessa ragione, il padre Morell era fortemente critico nei confronti dello sport agonistico così come oggi è inteso e praticato. Esso – egli lamenta – «non lascia spazio alla creatività umana, non gratifica l’atleta nel suo essere persona. Lo sport agonistico soprattutto “seleziona”, “scarta”, fa le graduatorie. I più dotati vanno avanti, gli altri restano a guardare emarginati, messi da parte, se non addirittura completamente esclusi. Il vizio di fondo, la radice della discriminazione sta nella quasi isterica ricerca del risultato a ogni costo, nella specializzazione portata agli estremi. Chi non ha determinati requisiti è automaticamente escluso dal recinto. Con simili premesse lo “sport per tutti” resta sempre una utopia»2 Conclude il padre Morell: «Costruire un campione non significa necessariamente costruire un uomo» In questa insufficienza culturale dello sport agonistico si riflette quindi la crisi profonda della nostra «società senza padre», di cui soffrono maggiormente i giovani.
  1. L’impegno per la rivalutazione culturale e sociale dello sport
Si comprende allora l’importanza della missione del padre Morell che lottò affinché lo sport non fosse un lusso riservato solo ad alcuni, ma divenisse accessibile a tutti i ragazzi, ritenendolo un elemento essenziale alla formazione dell’uomo. Il padre Morell ne era convinto: lo sport, non ha solo un valore strumentale ma ha una sua intrinseca dignità trascendente, va quindi rivalutato culturalmente e socialmente. Proprio per questo si dedicò anima e corpo a coltivare gli autentici valori dell’educazione sportiva, superando decisamente la concezione meramente strumentale di uno sport senz’anima. Scrive giustamente Giancarlo Tettamanti, riecheggiando l’insegnamento del padre Morell: «Una attività sportiva solo usata, ma non capita, non libera l’uomo: lo distrae e lo aliena. E’ solo grazie a una attività interiore che l’uomo illumina la realtà esteriore e fa crescere la propria umanità. Non è quindi l’attività sportiva in sé che educa: educano le sue motivazioni» .In altre parole: l’agonismo, cioè il desiderio e la volontà di vincere non sono un male, anzi sono essenziali al gioco sportivo; il vero problema è quello di dare un’anima, un ideale umano all’agonismo: insegnando all’atleta ad esprimersi, a prendere coscienza di se stesso, a unificare la propria personalità, secondo una concezione integrale della persona. Nello stesso tempo, l’agonismo rettamente inteso educa a essere elementi di equilibrio nella vita sociale, insegna a stare insieme, a fare squadra, aiuta lo sviluppo armonico di se stessi e dei rapporti interpersonali. Lo sport, insomma, è cultura e, nello stesso tempo, è una scuola di moralità sociale. E’ appena il caso di notare che lo sport, debitamente rivalutato culturalmente e socialmente, costituisce un antidoto efficace contro le deviazioni prodotte dalla «società senza padre»: riattiva i rapporti interpersonali interrotti, favorisce l’integrazione, la solidarietà e la convivenza, che sono i fattori portanti di ogni convivenza civile, degna di questo nome. Si spiega, perciò, perché il padre Morell – creando la «consulta genitori» – volle coinvolgere anche le famiglie dei giovani non solo nell’attività operativa concreta del Centro Schuster, ma anche sul piano ideale dell’educazione sportiva, personale e sociale, dei ragazzi. Tuttavia, l’elemento specifico e originale del «carisma» del padre Morell sta nella rivalutazione della dimensione spirituale e religiosa dello sport. Su questo punto egli dovette sperimentare anche qualche resistenza e incomprensione, sia da parte di dirigenti, responsabili e tecnici che esitavano ad accettare di definirsi educatori cristiani, sia da parte della comunità ecclesiale e della stessa Compagnia di Gesù.
  1. La rivalutazione spirituale dello sport
Lo sport ha pure una dimensione spirituale. E’ questo il vero elemento specifico del del padre Morell. Le norme rigorose e la disciplina, a cui gli atleti si sottomettono, aprono a un’esperienza che trascende la vita fisica. Le rinunce, fatte per un ideale, non impoveriscono, ma liberano. Certo, lo sport non è un’attività «spirituale» in senso proprio, ma ha punti di contatto con l’esperienza spirituale. Ogni persona umana (anche non credente) è capace di spiritualità, di gustare l’arte, la musica, la poesia.. e lo sport. E la spiritualità apre e dispone alla fede. Tanto che san Paolo paragona la vita del cristiano a una competizione sportiva: «Nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio. Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile» (1 Cor 9, 24s). Lo sport, quindi, è anche un’occasione preziosa per stabilire un collegamento vitale tra esperienza agonistica, spiritualità e apertura alla fede. L’agonismo sportivo raggiunge la perfezione quando lo sforzo fisico è animato da un soffio di spiritualità. Vi sono professioni – il prete, il medico, il politico – che non si possono esercitare adeguatamente senza vocazione. Lo stesso vale dello sport: quella dell’atleta, più che una professione, è una vocazione! Il padre Morell, autentico uomo spirituale, sentì vivamente l’importanza di una rivalutazione spirituale e religiosa dell’educazione sportiva, accanto a quella culturale e sociale. In questo fu un gesuita esemplare. Sant’Ignazio, infatti, insiste che il gesuita deve anteporre la vita di fede e dello spirito a qualsiasi attività apostolica, umile o nobile. Per rendersi conto di quanto il padre Morell fosse impregnato di questa spiritualità ignaziana, basta scorrere i suoi scritti o ricordarne i mille esempi quotidiani che hanno impreziosito tutta la sua vita. Le pagine più alte rimangono quelle che egli scrisse negli ultimi anni di vita, quando dovette affrontare la prova durissima del suo allontanamento dalla direzione e dall’opera stessa del Centro Schuster. Fin dal primo momento in cui concepì la sua creatura, 60 anni fa, il padre Morell pensò di dare vita a «un’opera che ha lo scopo di promuovere lo sport come componente educativa e di fare una proposta cristiana per iniziare un cammino di fede» Gli stava a cuore moltissimo la formazione cristiana dei dirigenti e degli animatori sportivi, e riteneva necessario che essi vivessero «un’esperienza comunitaria, per essere testimoni di Cristo Risorto nel mondo dello sport e del tempo libero. I lodevoli sforzi tecnici e organizzativi – concludeva –, senza il supporto di questa comunità di vita cristiana, saranno come una casa costruita sulla sabbia» La forma concreta in cui tradurre in pratica quest’apertura della formazione sportiva alla fede risente ovviamente della mentalità dominante 60 anni fa nella Chiesa e nel mondo cattolico, prima della celebrazione del Concilio Vaticano II. Il padre Morell, perciò, insiste – un po’ come avveniva in politica – sulla diversità e sulla contrapposizione del Centro Schuster ad altri Centri sportivi: «Le nostre società sportive – scrive – devono essere un’alternativa ad altre società sportive laiche […] il Centro Schuster è una “scuola cattolica”», che deve inserire i giovani in una proposta cristiana delle società sportive. «L’”ambiente” del Centro Schuster (regolamento, metodi, comportamenti, rapporti, ecc.) deve essere penetrato dai valori cristiani […]. L’ideale è quindi avere degli istruttori e degli aiuti preparati tecnicamente, capaci di fare personalmente una proposta cristiana, ma anche desiderosi di attuarla innanzitutto con una testimonianza di vita cristiana» E poi dice di sé: «Vorrei che tutti mi vedessero come “sacerdote”. I genitori, gli istruttori e gli accompagnatori devono convincersi che il mio “lavoro”, il più importante, è far conoscere Gesù ai giovani» Di conseguenza: «un allievo, se aderisce a una ideologia in contrasto con la fede cristiana ovvero si dichiara per principio indifferente al problema religioso, non potrà in alcun modo far parte della comunità del nostro Centro. Si potrà unicamente tollerarne la presenza per non violare il diritto di giocare, sempre che vi sia il minimo di lealtà in ordine almeno al rispetto per la caratteristica religiosa del Centro Schuster»10. Tuttavia, al di là di questi evidenti condizionamenti della cultura del tempo, la sua mente e il suo cuore furono sempre aperti e pronti ad accogliere tutti, senza discriminare nessuno. Da allora, sono passati 60 anni. Sono tanti! Nel frattempo è cambiato il mondo e, con il Concilio, è cambiata anche la Chiesa. Oggi papa Francesco parla addirittura di una Chiesa «in uscita», più preoccupata dei «lontani» che ripiegata sui suoi problemi interni, più impegnata a testimoniare la gioia e la bellezza del Vangelo che tentata dal proselitismo. Perciò, i principi ispiratori dell’opera del padre Morell mantengono tutta la loro validità evangelica e la carica spirituale, anche se ovviamente la traduzione operativa e organizzativa del Centro Schuster oggi non può più essere la stessa di 60 anni fa. Tra l’altro – anche secondo il Concilio –, è giusto che la formazione sportiva sia gestita responsabilmente da laici maturi, più che da un sacerdote, per quanto fornito di doti eccezionali. Vedo, quindi, un tratto della Provvidenza nella scelta che i Superiori della Compagnia hanno fatto il 22 febbraio 2003 di affidare ogni responsabilità organizzativa del Centro Schuster a una Associazione di Laici, che condividano la spiritualità ignaziana e si muovano fedelmente nel solco tracciato dal padre Morell. Certo per lui, il fondatore, quella scelta dei Superiori fu come la morte del chicco di grano, di cui parla il Vangelo; ma per il Centro Schuster fu la risurrezione, l’inizio di una vita nuova. Dal chicco che muore sotto terra, nasce una spiga piena di futuro. E’ questo il senso di questo 60°.
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