VITTORIA e SCONFITTA
Sono due facce della stessa medaglia che fanno parte dell’attività sportiva, anche quella che viene definita educativa: “si gioca per vincere”.
Non è sufficiente e neppure rispettoso dell’attività stessa, definire lo “sport educativo” quello che non ha come obiettivo il vincere.
La componente agonistica è di fondamentale importanza all’attività sportiva. Senza agonismo non si cresce, non si va in avanti. E il massimo per un atleta, il punto più alto è la vittoria.
Come nel film “4 sotto zero”, che racconta la vicenda della squadra giamaicana di bob.
Per la prima volta partecipano alle Olimpiadi invernali guidati da un “coach” plurimedagliato ma anche radiato per imbroglio.
La vigilia della discesa decisiva, il timoniere del bob domanda:
− Coach, perché l’hai fatto?
− Dovevo vincere! Quando sei un vincente, poi hai addosso la maledizione.
− Ma avevi già due medaglie?
− Vincere una medaglia alle Olimpiadi è un’emozione che non puoi neppure immaginare. Ma se non sei nessuno con quelle al collo, allora non vale niente.
La nostra società invece ci indica il cammino di riuscita nella vita, proprio nell’apparire.
Avere dei trofei da esibire, marche da sfoggiare, apparire in tv o sui mass media… questo significa essere vincente.
Questo tipo di competitività rischia di creare tanti disadattati che credono di non valere nulla perché non raggiungono il gradino più alto che la società di oggi indica come unico spazio di sopravvivenza.
Ma un uomo vale di più, un ragazzo è più dei suoi trofei: è una persona che porta in sé una grande ricchezza.
Il nostro Arcivescovo, nel suo discorso di Sant’Ambrogio, invita la nostra città a recuperare “l’uomo del cuore”. L’uomo che è più proiettato a veder ciò che si nasconde dentro di sé in bellezza, serenità, valore… piuttosto che impegnato a ostentare un’immagine di facciata fatta di vittorie, conquiste, soprusi.
A questo bisogna educare i nostri atleti e i nostri ragazzi: vincere è bello ma è ancora più importante essere contenti della propria vita, delle ricchezze che ci portiamo dentro di noi e che, a volte, nessuna classifica o cronometro potrà mai premiare.
Credo sia fondamentale per trasmettere questo che un allenatore, dirigente e, ancor di più, genitore sappia “giustificare” un ragazzo. Giustificare non significa permettere tutto facendo finta di niente, come spesso accadde nel mondo d’oggi dove viviamo una vera e propria “emergenza” educativa. Giustificare non è soltanto accettare, senza fare drammi, che un ragazzo possa sbagliare. Giustificare non è neppure dare colpa alla sfortuna, all’arbitro, al proprio compagno … di un’eventuale sconfitta.
La “giustificazione”, secondo la terminologia biblica, è l’amore straordinario di Dio nei confronti dell’uomo che garantisce la sua sopravvivenza, nonostante i suoi errori, i suoi sbagli, il suo non aver centrato l’obiettivo.
Giustificare è prendere le difese del proprio figlio nei confronti di un insegnante giustificando la sua non preparazione per un’interrogazione: “Non è pronto perché è stato malato, ha avuto un imprevisto…”.
E’ dire che vale lo stesso, anche se oggi non è all’altezza.
Anche se il mondo non sembra giustificare la sua presenza perché non è un vincente, incapace di raggiungere un risultato, al di sotto delle aspettative … la mia cura per lui giustifica la sua possibilità di continuare.
Una mattina, durante una vacanza in montagna, a colazione si presenta un ragazzo in pigiama e neppure lavato. Con il fare dell’educatore rigido gli urlo: “Tornatene subito di sopra a lavarti e cambiarti”. “Per chi mi devo lavare?” è stata la sua risposta secca.
In questo modo mi ha spiazzato. Io avevo pronte tutte le teorie sul “perché” era giusto presentarsi bene in refettorio. Lui ha spostato la motivazione sull’amore, attenzione, cura che spingono a mettercela tutta e a fare bene perché, comunque, c’è qualcuno che ti apprezza per quello che sei, vincente o perdente.
Perché qualche volta, ma forse sarebbe meglio dire spesso, nelle gare sportive si perde.
Vincere è bello, trasmette emozioni, ripaga degli sforzi fatti. Ma non è l’esperienza più quotidiana per uno sportivo. Spesso devi fare i conti con un cronometro che sembra non
fermarsi, con un pallone che non vuole entrare, con una gamba che sembra un peso morto.
La sconfitta ridimensiona i nostri sogni di gloria, ma soprattutto ci pone di fronte ai nostri limiti.
Il limite è di frequente associato ad un’esperienza negativa: l’incapacità di raggiungere un risultato, di essere qualcos’altro, di essere da meno di qualcuno più dotato.
Nella sua etimologia, il termine “limite” si rifà al tipico modo degli antichi romani che tracciavano un confine con una riga (limes) per definire il contorno di un territorio che era tua proprietà, per differenziarlo da un altro.
Il limite, allora, diventa il contorno della mia persona: ciò che io sono capace di fare e ciò che non sono ancora in grado di fare. Limite non è solo ciò che mi squalifica agli occhi degli altri, piuttosto ciò che mi rende diverso da un altro. Stabilisce le mie caratteristiche che mi rendono unico e irripetibile.
La sconfitta, allora, diventa la presa di coscienza di ciò che si è attraverso la consapevolezza di ciò che siamo stati in grado di fare o ciò che non siamo riusciti ad esprimere.
Risulta importante, davanti ad una sconfitta, per un bravo educatore, che sia allenatore o genitore, non concentrarsi esclusivamente sul “risultato”, bensì anche sulla “prestazione”.
Non sottolineare solo che si è perso ma anche valutare come si è perso.
Si è perso anche di fronte ad un avversario. Non si gareggia mai da soli, neppure quando corri davanti ad un cronometro. C’è sempre qualcuno con cui confrontarti per misurare le tue reali capacità.
In questo caso l’avversario diventa il limite alla tua vittoria, colui che non solo te ne priva ma anche potrebbe conquistarla al posto tuo.
Tuttavia senza di lui tu non potresti mai gareggiare. E’ la presenza dell’altro che permette di mettere a frutto gli insegnamenti ricevuti, che misura i tuoi sforzi degli allenamenti, che infrange i sogni di gloria ma spalanca gli occhi sul realismo, che fa uscire dall’isolamento autosufficiente per vivere un incontro.
Senza avversario non ci sarebbe lo scatenarsi dell’emozione, la tensione del pre-gara, la gioia di un risultato o le lacrime della sconfitta.
Proviamo a chiedere a dei ragazzi che hanno appena vinto a tavolino la partita che ha regalato a loro punti in classifica se sono sufficientemente contenti, probabilmente ( a meno che siano già smaliziati) manifesterebbero il loro rammarico per non aver giocato.
Ma senza avversari non è possibile giocare.
Allora bisogna educare a comprendere che l’altro non è solo un nemico da abbattere ma soprattutto un “compagno di gioco” con cui confrontare le mie capacità.
Approvo in pieno la regola del “terzo tempo” già presente in altri sport e ora introdotta anche nel calcio. Stringere la mano, oltre che rendere onore, è un ringraziamento per essersi messo a confronto con i miei limiti, che sono anche le mie capacità. Quelle che mi hanno permesso di vincere o che mi hanno portato alla sconfitta.
Ad un amico e compagno di gioco non si rende l’onore delle armi ma lo si riconosce, con il saluto, il grazie e i complimenti!
Qualcuno, purtroppo tanti, hanno pensato di trovare rimedio al superamento del proprio limite in un’esperienza di truffa, che comunemente viene chiamata: doping.
Il doping (medico, amministrativo, legale…) è una pratica che cerca di raggirare l’ostacolo nel modo più facile e veloce. E’ l’angoscia di vivere esclusivamente per la vittoria con quello che da essa scaturisce.
In questo modo si mina alla base la regola fondamentale dello sport che vede, almeno sul punto di partenza, la possibilità di vittoria estesa a tutti i partecipanti. Tutte le partite cominciano dallo zero a zero, le corse cominciano dalla stessa linea di partenza, il cronometro è fermo allo zero per tutti. In seguito le proprie capacità e i propri limiti fanno la differenza.
Partire con un aiuto, che sia una pastiglia o una regola differente, distrugge quel rapporto di fiducia che mi ha fatto scendere in gara per misurarmi con un avversario. Inoltre, ritengo che vincere con questo aiuto particolare è andare contro due comandamenti racchiusi nella sapienza della legge di Mosè: “ non dire falsa
testimonianza” e “non rubare”.
Vincere col doping è falsare la mia immagine, perché non mi presento per quello che sono realmente, e cioè forza e anche limite, ma solo forza. Non sono le mie reali forze che mi portano alla vittoria ma una forza esterna che non sono io.
Quella medaglia, quel record, quell’applauso io l’ho privato a qualcuno a cui spettava per la sua onestà e bravura. Questo si chiama “rubare”: portare via qualcosa a qualcuno che se lo meritava.
Tuttavia c’è un’altra strada percorribile per superare i propri limiti e si chiama “sacrificio”, “sudore”, “allenamento”. E’ il provare e riprovare.
A volte non si dovrebbe concentrarsi solo ed esclusivamente su una vittoria assoluta che regala certamente gloria e fama, ma anche accettare delle piccole vittorie che si chiamano sforzo per raggiungere degli obiettivi.
All’ingresso di un rifugio di montagna c’era appeso questo straordinario insegnamento: “Le più alte cime, quelle che non svaniscono mai, sono le conquiste su noi stessi”. Questa è la vera mèta a cui ambire e in cui indirizzare i nostri sforzi.
Qualche volta non si raggiungono gli obiettivi perché non si sono prese in considerazione le vere vittorie che giorno dopo giorno dobbiamo conquistarci. Deve essere continuamente alimentato il coraggio dello sforzo, la passione del sacrificio, la cultura della rinuncia, l’umiltà dei piccoli passi. Solo così si potrà davvero vincere la partita più importante.
Non è sempre facile! Soprattutto in una cultura del tutto, subito e facile.
Quando sorge la tentazione di mollare o lo sconforto di non riuscirci, potrebbe venire in aiuto la storiellina di un vecchio saggio che aveva sempre la risposta giusta al momento giusto. Un giovane si era stancato di questo vecchio saggio che sembrava sempre di sapere tutto. Un giorno decise di metterlo alle strette. Prese un passerotto tra le sue mani e pensò tra sé: “ Domanderò al saggio se questo passero tra le mie mani è vivo o morto. Se dirà che è morto, io aprirò le mani e lo farò volare. Se dirà che è vivo lo stringerò tra le mani per farlo soffocare”. Andò dal saggio e gli disse: “Tu che sai tutto rispondimi: il passerotto che ho tra le mani è vivo o morto?”. Il vecchio, dopo una pausa di silenzio, rispose: “Il passerotto sarà quello che tu vorrai!”.
Il tuo limite sarà quello che tu vorrai: la fine della tua carriera sportiva o il motivo, più che valido, per un tuo coraggioso impegno!